Page 13 - Programma di sala - 16 aprile 2021
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versante espressivo introspettivo e struggente l’aria di Marie (“Par
le range et par l’opulence”) nel secondo atto, quando il ricordo
della protagonista va al suo Tonio lontano; è una melodia morbi-
damente malinconica, ma che non risparmia difficoltà all’interprete
per l’abilità richiesta. Quando poi Marie scorge il suo reggimento,
ecco che l’aria volge verso la sua sezione conclusiva, la cabaletta
di prammatica: sulle parole “Salut à la France!” si leva un can-
to radioso, un motivo spavaldo che s’inerpica su acrobazie vocali;
all’epoca, inorgoglì di sentimenti patriottici, diventando quasi una
sorta di inno nazionale.
LA SONNAMBULA (1831) è uno dei melodrammi più famosi di Bel-
lini, e uno dei suoi capolavori; una riuscita combinazione fra il genere
dell’idillio pastorale e dell’opera semiseria, altro aspetto del variega-
to panorama di quell’Ottocento operistico.
Nacque infatti anche come titolo da opporre, nei contenuti e nelle
atmosfere, alle tragiche tinte dell’Anna Bolena di Donizetti, rappre-
sentata nella medesima stagione del Teatro Carcano di Milano solo
pochi mesi prima. Non ci sono esiti catastrofici in questa vicenda,
riportata a libretto da Felice Romani (l’autore di ben sette dei dieci
testi messi in musica da Bellini, e all’epoca il librettista più richiesto):
Amina, fanciulla tenera e innocente, è affetta da sonnambulismo;
ama, ricambiata, Elvino, ma la sua malattia porta a una serie di equi-
voci dei quali si approfitta Lisa, gelosa perché innamorata di Elvino;
solo alla fine, quando si scoprirà che è sonnambula, Amina si ricon-
giungerà felicemente al suo Elvino.
Fra i non pochi gioielli di cui è incastonata la partitura della Son-
nambula, c’è proprio la scena conclusiva, che oltretutto affronta in
termini musicali uno dei temi cari del Romanticismo italiano operi-
stico: il sonnambulismo come vagare incontrollato della mente, un
uscir da sé che, nella tipica e quasi morbosa attenzione al mondo
dell’inconscio, avrebbe dato luogo (e lo vedremo) a un momento
tipico dell’opera di quegli anni, ossia la scena di pazzia. Amina, in
preda al sonnambulismo, guarda i fiori, ormai appassiti, che le ha
donato Elvino, e lo sconforto la porta ad intonare l’aria “Ah, non
credea mirarti”: un canto delicato, una di quelle melodie “lunghe,
lunghe, lunghe” (come le definiva Verdi), che procede per piccole
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