Page 16 - Programma di sala - 16 aprile 2021
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I PURITANI (1835) è l’ultima opera di Bellini. Con un melodramma
          serio s’interrompe troppo precocemente la carriera del compositore
          catanese, che morì di lì a pochi mesi, a soli trentaquattro anni.
          A fornirne il soggetto era stata la storia inglese, serbatoio capien-
          te per quelle vicende dalle implicazioni tragiche, ricche di intrighi,
          passioni e colpi di scena, di cui l’opera allora avidamente si nutriva.
          Nel libretto di Carlo Pepoli, tratto da un dramma storico di Jacques
          d’Ancelot (ma ispirato da Walter Scott, ancora una volta), prese così
          corpo un turbolento romanzesco intreccio: sullo sfondo delle lotte
          religioso-politiche fra i seguaci di Oliver Cromwell, ossia i Puritani, e
          quelli degli Stuart regnanti d’Inghilterra, si delinea la tormentata sto-
          ria d’amore di Elvira, puritana, promessa sposa all’adorato Arturo,
          fedele agli Stuart, disperatamente amata da Riccardo; credendo di
          esser stata abbandonata, impazzirà, salvo poi ritrovare il senno e la
          serenità di fronte ad Arturo che le dichiara il suo amore, mentre si
          festeggia la vittoria dei Puritani, capitanati da Riccardo, sugli Stuart.
          A una vicenda tortuosamente concepita da Pepoli (librettista ine-
          sperto, ma del resto Felice Romani si era defilato, essendosi i rap-
          porti con Bellini guastati dopo l’insuccesso della Beatrice di Tenda),
          Bellini diede una veste sonora più sfaccettata, raffinata e soprattutto
          efficace sul piano espressivo di quanto non avesse fatto nelle ope-
          re precedenti. A questo nuovo gusto, influenzato dal contatto con
          gli ambienti musicali francesi (Bellini si era ormai trasferito a Parigi,
          capitale europea della musica, ed a quel pubblico pensava), si ri-
          conduce anche il ricorso, nei Puritani, ad ampi e spettacolari quadri
          corali, tipici del grand-opéra. Come all’inizio del secondo atto, dove
          un’ampia, robusta e inquieta introduzione orchestrale annuncia lo
          sgomento (“Ah! Dolor! Ah! Terror… Piangon le ciglia, si spezza
          il cor”), punteggiato da minacciosi rulli di timpani e da dolenti pau-
          se, che gli abitanti della fortezza di Plymouth intonano per le sorti di
          Elvira, ormai preda della follia. Ed è di lì a poco, nel cuore dell’opera,
          che Elvira diventa la protagonista della sua Scena di pazzia, un’aria
          (“Qui la voce sua soave”) corredata della consueta cabaletta irta
          di impegni vocali (“Vien, diletto, è in ciel la luna”).
          Nell’immaginare di udire la voce del prediletto Arturo e lamentan-
          done la lontananza, Elvira modella il canto su un cullante accompa-
          gnamento orchestrale, una melodia decantata, risolta in una linea


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